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Razzismo e noismo sull’Enciclopedia Treccani

L.L. Cavalli-Sforza, D. Padoan
Razzismo e noismo. Le declinazioni del Noi e l’esclusione dell’altro
Passaggi Einaudi
2013
pp. XIV – 330

http://www.treccani.it/scuola/itinerari/un_libro/rec_408.html

Non c’è dubbio che gli uomini siano assillati dal bisogno di definirsi, prima che di conoscersi. La storia del pensiero dell’uomo intorno a sé stesso porta tracce profonde di questa urgenza, che nei secoli si è sedimentata in un insieme di dogmi e pregiudizi che guidano inconsapevolmente il nostro sguardo sugli altri e sulle cose, e su cui oggi è necessario tornare a riflettere. Razzismo e noismo è in effetti un tentativo di riprendere alcune delle domande fondamentali sul nostro essere uomini, anche alla luce delle riflessioni e scoperte che – a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ma in particolare negli ultimi decenni – hanno portato il mondo scientifico e filosofico a rivedere in molti punti la storia dell’evoluzione e dell’origine della nostra specie.

Il testo si presenta come un dialogo tra due importanti studiosi: un celebre scienziato noto soprattutto per i suoi contributi nel campo della genetica delle popolazioni applicata allo studio della storia delle migrazioni umane (Luca Cavalli-Sforza), e una scrittrice e saggista che da tempo si occupa di testimonianza dei genocidi del Novecento e di resistenza femminile alle dittature (Daniela Padoan). La scelta della forma dialogica – una forma tipicamente aperta, aporetica, ricorsiva, in opposizione alla linearità e l’assertività tipiche del saggio – riflette sul piano stilistico l’intento programmatico di «ricercare […] un ponte tra due linguaggi (quello scientifico e quello umanistico) che di norma procedono su strade parallele». Da questo punto di vista, l’articolazione del libro in cinque grandi capitoli non riflette una partizione netta dei contenuti ma resta invece permeabile alla digressione, al ripensamento, all’approfondimento.

Il concetto di «noismo» – neologismo con cui Luca Cavalli-Sforza propone di tradurre l’inglese we-ness – fa riferimento alla«funzionalità delle nostre azioni nei confronti del gruppo sociale al quale apparteniamo». In questo senso il noismo è inseparabile dall’esistenza umana ed è declinabile in tanti modi (ad esempio: campanilismo, nazionalismo, razzismo, altruismo) quante sono le forme del “noi” in cui di volta in volta ci riconosciamo.

Ma è proprio la categoria del “noi” a trovarsi costantemente interrogata nel corso della ricerca: in cosa consistono – si chiedono infatti i due studiosi – quei “noi” in cui oggi per lo più ci riconosciamo, e da dove vengono? L’assimilazione acritica di modelli relazionali strutturalmente ideologizzati (prima di tutto il linguaggio) ci porta infatti ad accogliere come “dati di fatto” un insieme di postulati sulla natura del mondo – e di conseguenza sul nostro posto in esso – senza riconoscerne il carattere di prodotto culturale storicamente determinato. Di fatto, molti dei presupposti che oggi guidano le nostre scelte identitarie affondano le loro radici nella complessa storia delle trasformazioni che hanno portato una ristretta parte del genere homo a stabilire progressivamente un dominio incontrastato sulla natura e sui suoi simili.

La «specie prepotente» – così Luca Cavalli-Sforza ha ribattezzato homo sapiens moderno, o sapiens sapiens – ha fatto la sua comparsa in Sudafrica circa 200.000 anni fa e si è ben presto affermata come egemone, soppiantando o sovrapponendosi alle specie di homo già esistenti. Per 190 millenni ha vissuto di caccia e raccolta, in un assetto sociale, per quanto ci è dato sapere, sostanzialmente egualitario e pacifico, come quello che ancora oggi caratterizza le (poche) società tribali rimaste nel mondo.

La rivoluzione agricola modifica radicalmente questo scenario, introducendo la divisione del lavoro e generando così una serie di squilibri nella gestione e distribuzione delle risorse. Nasce la proprietà individuale e con essa emergono le prime forme di differenziazione socioeconomica: «l’emergere di una classe egemone e l’accentramento progressivo della proprietà terriera è alla base della creazione delle città-stato e degli imperi, e con essi delle leadership e dei conflitti; con il sorgere di entità strutturate sempre più grandi [...] l’ordine si è progressivamente identificato con un gruppo ristretto, l’oligarchia, o con una singola persona, il despota, il monarca, l’imperatore o il dittatore: il punto di riferimento collettivo, il simbolo per il quale si fanno le guerre». In questo processo è ravvisabile, secondo Cavalli-Sforza, la genesi del noismo, il cui strutturarsi «disegna cerchi del noi sempre più normativi, che presuppongono gli altri come nemici».

La definizione del noi, dunque, è imprescindibile dalla determinazione dell’alterità, che ne rappresenta il correlato naturale. I differenti modi di nominare l’altro corrispondono in effetti ad altrettante declinazioni dell’identità collettiva. In questo senso il linguaggio si costituisce innanzitutto come il luogo nativo dell’identità e del riconoscimento; ma esso diviene anche il luogo privilegiato dell’espressione di una prepotenza socialmente codificata, là dove si fa portatore di un’esigenza – quasi una pretesa – di ordinamento della molteplicità e gestione della differenza: «Il noi espansivo, vincente, si è declinato come appartenenza maschile, competenza razionale, possesso di anima e virtù […] L’uomo maschio, bianco, europeo […] nella sua storia e nella storia dei concetti con cui pensa il mondo, per definirsi ha dovuto distinguersi da ciò che non è: dall’animale, dalla donna, dal primitivo, dal barbaro […] La collocazione entro le gerarchie del sesso, del logos, dell’animale, del mostro, fanno da sfondo e talvolta da nucleo alle teorie razziste, incluse quelle che andarono ad alimentare l’ideologia nazista della razza».

Questa tendenza alla gerarchizzazione della vita e del vivente – che ha informato e informa in modo consistente anche le scienze moderne – mira in ultima analisi a spogliare il prossimo della sua irriducibile alterità, intenzionandolo come oggetto di un processo conoscitivo unidirezionale. Un declinare l’altro alla “terza persona”, che ci permette di ignorare quel richiamo all’ascolto e alla responsabilità implicito nella sua prossimità, facendone piuttosto un che di conosciuto, di oggettivo. È forse allora proprio questo atteggiamento oggettivante il filo rosso attraverso cui si svolge la storia del disprezzo dell’uomo per l’uomo. L’urgenza di definire sé stesso in opposizione all’animale, il dominio di genere, la proclamazione di una condizione di schiavitù “secondo natura”, le deportazioni e i genocidi degli ultimi due secoli si rivelano in qualche modo come il prodotto di una dinamica comune: il bisogno di nascondere l’altro a sé stessi, per scampare l’incognita dell’incontro.

Alessandro Salpietro

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Città del libro 2010 – “Eroi di carta”

Lecce, sabato 27 novembre 2010

Città del Libro 2010, Rassegna nazionale degli autori ed editori, XVI edizione

Sala Centro Servizi, Campi Salentina, ore 18

Daniela Padoan presenta il libro Tra scrittura e libertà. I discorsi dei Premi Nobel per la letteratura

Rosella Santoro dialoga con l’autrice
Ippolito Chiarello legge i testi

www.cittadellibro.net

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Nadine Gordimer, “Ritratto di un clandestino”

Intervista di Daniela Padoan

“il manifesto”, 30 giugno 2002

Julie, ragazza bianca e ricca di Johannesburg, rimasta in panne in mezzo al traffico, aggancia Abdu, il meccanico arabo dell’officina a cui si rivolge in cerca di aiuto. Ancor prima di vedere il suo bel viso olivastro, di incontrare lo sguardo distratto dei suoi grandi occhi neri, è attratta dal suo corpo sdraiato e mezzo nascosto che esce sinuoso da sotto la scocca dell’automobile che sta riparando. Questa la scintilla da cui prende avvio la storia, anche se in realtà l’ultimo romanzo di Nadine Gordimer, L’aggancio propone fin dal titolo il gioco di un doppio spiazzamento: pickup, nel senso di rimorchiare una persona, ma anche di trainare un’automobile. Il racconto dice di uno scambio tra i due in cui fino all’ultimo non si sa chi sia ad aver agganciato l’altro, anche se – sostiene Nadine Gordimer – tutti finiscono per muoversi da soli verso se stessi. Come in un doppio sogno, tanto Abdu che Julie agiscono sulla spinta di una mancanza: quel che li muove è il desiderio di qualcosa che esorbiti l’orizzonte soffocante del proprio mondo di appartenenza. Lui fugge da uno di quei paesi dove non si riesce a distinguere la religione dalla politica e dove le forme della persecuzione sono inscindibili dalla povertà, che diventa a sua volta persecuzione. Lei fa parte di una famiglia e di un ambiente di cui disprezza i privilegi, e frequenta un ristretto circolo di intellettuali liberal e bohèmien, orgogliosi di mostrare la loro estraneità ai pregiudizi razziali pur vivendo in un paese che da non molto si è liberato dall’apartheid. E, tuttavia, si ritrovano ad essere altrettanto prigionieri di rituali di appartenenza e di esclusione.

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Fleur Jaeggy, “Un viaggio nei doni inattesi dell’assenza”

Intervista di Daniela Padoan

“il manifesto”, 11 luglio 2002

Nello stratificarsi dei discorsi critici che sempre rischiano di farsi luogo comune attorno ai grandi scrittori, lo stile severo ed essenziale della narrazione di Fleur Jaeggy è raccontato come un incalzare di frasi brevi, fredde, implacabili. Eppure, più che una cifra stilistica, il suo modo espressivo sembra mostrare l’assenza di orpelli del testimone; di chi, avendo toccato un punto irrevocabile di conoscenza del male, non può che tacere o compiere lo sforzo di circoscriverlo con parole. D’altra parte, si legge in una delle ultime pagine di Proleterka, la verità è nuda come un cadavere lavato. Quasi che l’essenzialità le sia connaturata, l’ultimo libro di Fleur Jaeggy è uscito a sette anni di distanza dal precedente, e dunque, come tutti gli altri, intervallato da una lunga assenza.

L’infanzia sembra ricorrere nella sua scrittura come il momento in cui vengono gettati i dadi, in cui il gioco dell’esistenza si inscrive in quell’ orizzonte che lo sguardo abbraccerà per sempre.

Sì, credo che l’infanzia sia un momento molto importante, in cui si percepisce già quasi tutto il mondo, si vede tutto, ci si accorge di tutto. In seguito abbiamo l’impressione di dimenticarcene, ma poi queste cose tornano. Tutto si svolge nell’infanzia e nell’adolescenza. Quello che succede dopo è molto meno importante, perché nei bambini c’è un aspetto visionario.

Nel libro il padre è come «una fiaba romantica del gelo».

Ho visto Johannes come una figura piuttosto distante, gli occhi chiari, una persona che ha perso la fortuna della propria famiglia, costretta a vedere la figlia poche volte all’anno. La sola volta in cui i due si vedono più a lungo è durante un viaggio in Grecia, che dura quattordici giorni. Non sono mai stati insieme tanto tempo, dunque lì potrebbero conoscersi, però questo non succede. Forse tra alcuni esseri umani c’è una conoscenza superiore alla parentela o ai vincoli di sangue.

La conoscenza sembra qualcosa che non deve essere cercata in modo diretto, qualcosa da cui la protagonista si difende come da un’intrusione. Nel libro lei dice: «Non avrò altre occasioni di conoscere mio padre. Evito di sapere, come se fosse l’unico modo di sapere.»

La protagonista si difende, certo, e vuole vivere, ma è circondata dalle ombre del passato che visitano questo viaggio. Una serie di spettri che tentano di non farla vivere. Invece lei vive… E’ sempre un po’ difficile per me spiegare un libro, soprattutto dopo averlo scritto; mi è quasi più facile spiegare qualcosa che non è ancora stato scritto, che rimane nell’immaginario.

L’assenza della madre viene patita in modo diverso dalla protagonista. E’ un’assenza più originaria, più profonda. Una figura con cui dialoga solo attraverso il possesso del pianoforte che le è appartenuto.

La madre non c’è quasi mai in questa storia. Tutto gira attorno al padre, anche quando si parla delle donne della famiglia materna che tentano di nuocergli. Tre generazioni di donne che si prendono cura con passione vorace dei propri fiori, e che, insieme all’amore per il giardinaggio, coltivano un profondo astio verso il genere maschile.

Quasi una genealogia dell’odio nei confronti degli uomini.

In questa famiglia c’è una sorta di odio verso il genere maschile, ma la figlia non se ne lascia influenzare. Lei non è come loro.

Com’è, allora?

Non ha neppure un nome. Qua e là dice qualcosa di sé, ma non mi sembra che si faccia conoscere. E’ un personaggio che si sottrae continuamente alla conoscenza.

E’ come se ai personaggi di questo libro mancasse una sorta di grammatica degli affetti.

Sì, è un libro sulla disaffezione.

Leggendo il suo libro vengono in mente quelle che Ingeborg Bachmann chiamava le «cause di morte», quelle incolpevoli crudeltà che uccidono.

Se ci penso attentamente nessuno ha colpe. Forse l’unica lieve colpa ce l’ha l’uomo che rivela alla figlia di essere il suo vero padre. Questa pretesa della verità potrebbe essere una colpa. Vuole passare più o meno indenne dalla vita alla morte, mettendo a posto le cose che crede vere. Questa ostentazione finale di dire la verità potrebbe essere una colpa. Continua a leggere

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Le Signares

testo per Regine d’Africa, libro fotografico di Paola Mattioli

di Daniela Padoan

Ritratti di donne africane in pose di ieratica bellezza, dove il bianco, misteriosamente, sembra rifulgere d’oro e il nero vibrare di quel cuore di tenebra con cui Conrad alludeva all’oscurità perturbante della natura africana, ma soprattutto all’incontro violento, rapace, dell’uomo bianco, “civile”, con l’altro da sé. Li guardo ancora una volta, incerta sul titolo da dare a questo testo: “La genealogia simbolica delle Signares” direbbe tutto, o quasi tutto, non fosse reso muto dalla sua inaccessibilità. Perché per rendere il percorso che ha permesso a queste immagini di uscire, come lo spirito della lampada, dal calderone magico dello sviluppo fotografico, occorre seguire i passi che hanno condotto Paola Mattioli in Senegal a fotografare un’idea, un’intuizione, qualcosa che non c’è più e che forse non c’è mai stata.

Rese figure archetipiche dalla scelta di cancellarne quasi completamente il volto per lasciar risplendere solo il baluginio degli occhi, le pieghe sontuose delle stoffe che le abbigliano, i gioielli di poco prezzo che le fanno sembrare regine, le donne delle fotografie sono le figlie, in una discendenza più immaginaria che reale, delle Signares, depositarie di quella che nel Senegal coloniale veniva chiamata, non senza arroganza, una negresse de bon ton. Una signoria, sarebbe meglio dire, ricavata nelle pieghe del dominio maschile e bianco da donne nere capaci di prendere le ricchezze di quelli che poi tornavano in patria, ai veri matrimoni, alle vere famiglie, e di farne un’arte, uno stile di vita, a cavallo tra moda parigina e costumi wolof. Il bianco e nero di Paola diventa allora allusivo di un métissage nato dall’incontro tra negrieri bianchi e donne nere destinate alla schiavitù che seppero rovesciare, nel segno di una particolarissima aristocrazia femminile, la cupa realtà delle colonie di Saint Louis, l’antica capitale del Senegal, e dell’Isola di Gorée, il porto di Dakar da cui, tra Settecento e Ottocento, venivano imbarcati gli schiavi destinati a essere venduti in America. Un capovolgimento che poté trasformare la sudditanza in forza e l’abbandono in una libertà giocata tra donne, nell’indolente attesa di un bastimento che riportasse lo sposo, o un altro uomo di cui fare un marito.

“Mi ricordo le Signares all’ombra verde delle verande, le Signares dagli occhi surreali come un chiaro di luna sulla spiaggia” recitano i versi di Léopold Sédar Senghor, il presidente poeta “padre della nazione” senegalese, che cantava la bellezza di donne di cui persino il nome, che deriva dal portoghese senhora, recava l’impronta dei primi colonizzatori. Continua a leggere

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