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E se pensassimo a uno ius soli per i nostri scrittori “stranieri”? Intervista a Bijan Zarmandili

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 13 gennaio 2012

Stranieri da Campiello

di DANIELA PADOAN

Niente cittadinanza linguistica per gli scrittori immigrati., anche se scrivono in italiano o sono nati qui. Ma la letteratura oggi è meticcia, come dimostrano Ben Jelloun e Kureishi


Benché tra una cinquantina d’anni, a detta dell’Istat, un quarto della popolazione residente in Italia sarà composta da immigrati, gli scaffali delle librerie continuano a essere divisi in autori italiani e stranieri: nel settore degli italiani alloggia, in ordine alfabetico, la vasta famiglia che va da Arpino a Vittorini, passando per la Brianza di Gadda e le Langhe di Fenoglio, mentre gli scrittori dai nomi esotici – non importa se di lingua italiana o addirittura nati in Italia – sono abitualmente collocati in ordine di appartenenza geografica sugli scaffali della letteratura straniera.

Ma cos’è, oggi, la letteratura italiana? Da quali materiali narrativi è alimentata? Che posto hanno, nel nostro immaginario, Younis Tawfik, giornalista e scrittore iracheno in esilio in Italia dal 1979, Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese a Roma dal 1977, Igiaba Sciego, giornalista e scrittrice nata in Italia da una famiglia di origine somala, Amara Lakhous, scrittore algerino a Roma dal 1995? L’elenco dei nostri “stranieri” è lungo; comprende il rumeno Mircea Butcovan, il persiano Hamid Ziarati, l’argentino Adrian Bravi, l’albanese Ornela Vorpsi – che continua a scrivere in italiano benché si sia trasferita in Francia – l’egiziana-congolese Ingy Mubiayi, e potrebbe andare avanti ancora.

Bijan Zarmandili, scrittore nato a Teheran ed esule in Italia da cinquant’anni – capace di usare la lingua italiana con tale libertà e raffinatezza da piegarla tanto alla sontuosità della poesia persiana che alla povertà mistica dei dervisci e dei sufi – fin dal suo esordio narrativo ha combattuto per essere considerato un autore italiano. «Tutti gli scrittori in esilio», spiega, «sentono voci provenienti dai luoghi della loro infanzia; voci dei tempi in cui erano in sintonia con altri volti, con gli affetti, gli odori, i colori, i rumori, persino i silenzi della propria origine. La trascrizione di tutto questo non può che dar luogo a una scrittura ibrida, bastarda nella forma e nel contenuto, perché, se pure nello scrittore che viene da un altro paese resta il tormento della provenienza, il paesaggio in cui si colloca è radicalmente mutato. È importante riflettere sull’ibridismo dell’autore esiliato, perché la letteratura d’immigrazione  o, come preferisco dire, la letteratura dell’esilio, nasce da un immenso e straordinario movimento di massa: milioni di uomini e di donne che si spostano da un continente all’altro, dando luogo a una cultura fatta di elementi che impongono una metamorfosi a tutte le culture coinvolte nel processo. Questa umanità bastarda contiene, inevitabilmente, molteplici talenti poetici e intellettuali, ed è in grado di trasferire le proprie esperienze in opere letterarie che assumono sonorità e stratificazioni proprio nell’incontrarsi e nel confliggere delle lingue di provenienza e di quelle adottive; l’esito di un simile processo dialettico, tuttavia, non sta solo in una straordinaria e vitale produzione poetica, ma in una continua risignificazione dell’esistente. È per questo che, quando vengo presentato come uno “scrittore iraniano”, avverto un profondo disagio: ridurre l’identità di uno scrittore alla sua origine implica negargli il senso di questo movimento».

L’attribuzione di una piena cittadinanza linguistica agli scrittori di origine straniera – una sorta di ius soli per chi abbia avuto nascita alla scrittura nella nostra lingua – sembra l’ultimo tabù della nostra globalizzazione; la loro opera non ha ancora una nominazione condivisa, e le definizioni più usate (“letteratura migrante in lingua italiana”, “letteratura transnazionale”, “letteratura italofona”, “letteratura postcoloniale”) si tengono in un’ambiguità tra riconoscimento di valore letterario, giudizio politico e sguardo antropologico.

«Quando la musica delle sillabe e la coerenza dei ritmi vengono utilizzate non dai poeti che hanno avuto maternità in una certa lingua, ma dai suoi figli illegittimi, confrontarsi con l’ibridismo di chi lavora con le parole diventa una vicenda complessa», dice ancora Zarmandili. «In Italia c’è sempre il rischio che questa scrittura venga ghettizzata, etichettata, risospinta verso la sua origine, ma è proprio la novità epocale costituita dall’immigrazione a dare nuova linfa all’Italia di oggi; a darci conto del caos di questo mondo che, meraviglioso e vivificante, si riflette su di noi, chiedendoci un pensiero estetico e politico».

Quindici anni dopo aver lasciato il Marocco per trasferirsi a Parigi, Tahar Ben Jelloun si vide assegnare il prestigiosissimo premio Goncourt, che ne fece uno scrittore di lingua francese a tutto tondo, e Hanif Koureishi, nato a Londra da padre pakistano e madre inglese, è considerato un autore inglese, non un pakistano anglofono. Un passo avanti potrebbe essere l’attribuzione di uno Strega o un Campiello a uno dei nostri autori ibridi, a sottolineare la loro piena appartenenza alla cultura, alla letteratura italiana.

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I demoni del deserto, di Bijan Zarmandili

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 25 novembre 2011

 

Sulla strada con Zarmandili

 

di DANIELA PADOAN

“Il vecchio e la ragazza camminano discosti l’uno dall’altra. Lei qualche passo indietro, lui assorto e distante, come fosse l’unico superstite sulla terra dopo il finimondo”. È il 26 dicembre 2003 e la città di Bam, nell’Iran meridionale, è stata distrutta da un terremoto. La tredicenne Hakimé – taciturna creatura dagli occhi verdi, occhi zagh, visitati da incubi e visioni – e suo nonno Agha Soltani, dietro di sé hanno solo rovine e distruzione. Proprio come l’Angelus Novus di Benjamin, posto significativamente in esergo, il vecchio Agha Soltani vorrebbe “trattenersi, destare i morti, ricomporre l’infranto”, ma un vento lo spinge verso il futuro, verso il deserto e il mare, in un mondo dove i venti hanno nomi e sono capaci, come il Bad-e-saba e il Bad-e-margh, di portare amore, morte, follia, devastazione. Agha Soltani lascerà l’ordine ormai frantumato della sua vita, i figli seppelliti sotto le macerie, per assumersi la responsabilità della nipote, presenza perturbante, familiare ed estranea al tempo stesso, con la sua bellezza, le sue mani che disegnano voli d’uccelli, la sua ossessione per il sangue. Questa indimenticabile coppia di superstiti incontrerà uomini capaci della più intima condivisione e uomini pronti a vedere l’altro come cosa: mercanti di bambini, di bambine, piccoli orfani ghermiti nel momento del disastro. Non l’esotismo dei predoni del deserto, delle fanciulle per gli harem, ma la cifra del nostro mondo, dove la vita è merce, spesso di poco valore e talvolta addirittura di nessun valore, eliminabile industrialmente. Visto da Bijan Zarmandili – scrittore nato a Teheran ed esule in Italia, capace di una mitezza efferata e di un italiano così sontuoso da poter essere asciugato fin quasi ad apparire scarno, tanto da lasciare che la bellezza e l’incanto emergano come un’evidenza dimentica del proprio autore – il terremoto di Bam non può che rappresentare la distesa di macerie del Novecento: il secolo che ha visto masse di individui trasformati in profughi, esuli, Displaced Persons; il secolo che il grande scrittore e sopravvissuto di Auschwitz Imre Kértesz, nel suo discorso del Nobel, definì “lo stadio terminale della grande avventura cui l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura etica e morale”. La peregrinazione del nonno e della nipote diventa allora un tentativo di riscrivere questa cultura, di ricominciare a tessere i fili spezzati delle relazioni, in cerca del volto dell’Altro.

Agha Soltani è un uomo che a settant’anni decide di ripensare la propria vita, di ricominciarla assumendo i suoi lutti, i suoi fallimenti, facendo un inventario di ciò che resta, di ciò che ha valore: delle scelte ancora da compiere, come si potesse ancora e sempre imparare – quando non si rimanga imprigionati da se stessi, dalla propria esistenza – e trovare un nuovo sguardo nutrito dalla libertà, dall’amore e dall’accettazione del caos. Dopo il terremoto, “la vecchiaia a lungo preparata si è trasformata in un fardello senza senso, ingombrante”; resta invece la vita, e la possibilità di fare di se stessi un varco. La piccola Hakimé, alla fine di un’avventura che, per quanto violenta, non è stata in grado di toccarla, aprirà uno spiraglio nel muro che la tiene separata dal mondo: “Portami a casa, nonno”. E non importa che non esista più una casa, perché Agha Soltani si è fatto egli stesso il luogo del ritorno. È la fine dell’esilio: la scoperta che la fine dell’esilio è dentro di sé.

Bijan Zarmandili, I demoni del deserto, Nottetempo, pp. 260

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Bijan Zarmandili, “Il cuore del nemico”

7 ottobre 2011, ore 16

La fiera delle parole

Padova, Palazzo Bo, Aula Nievo

DANIELA PADOAN e ALESSANDRO GROSSATO presentano il libro

Il cuore del nemico

di BIJAN ZARMANDILI

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