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Maurizio Ferraris recensisce Razzismo e noismo, il saggio di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan

Alle radici culturali della civiltà dell’orrore

Maurizio Ferraris, “La Repubblica”, 14 gennaio 2014

 

”Tra pochi giorni, il 27 gennaio, si celebrerà il giorno della memoria, e si ripresenterà un classico interrogativo: come è possibile che, nel cuore dell’Europa, una popolazione altamente civilizzata abbia compiuto uno sterminio su base razziale, ideando e allestendo su scala industriale quei lager che costituiscono una cesura nella nostra storia? E che significato dobbiamo dare a tutto questo, oltre a quello, ovvio e doveroso, del monito affinché ciò non abbia più luogo? In Razzismo e Noismo (Einaudi) un’umanista, Daniela Padoan, e uno scienziato, Luigi Luca Cavalli-Sforza, appartenenti a generazioni diverse e con idee spesso in contrasto, tentano e riescono a pensare fuori dagli specialismi proponendo una illuminante chiave di lettura. Quello che si è manifestato nei campi di sterminio non è semplicemente l’aberrazione di una ideologia, né meno che mai (come talvolta si suggerisce, non senza razzismo) lo spirito tenebroso di un popolo, ma piuttosto l’inconscio a cielo aperto dell’umanità.
I dati sono semplici. 200 milioni di anni fa ci siamo separati dagli uccelli, 65 milioni di anni fa dai cavalli, e solo da 7 o 5 milioni di anni ci siamo separati dagli scimpanzé, con i quali condividiamo il 98% del Dna. Ma è centomila anni fa che Homo sapiens sa- piensè uscito dall’Africa per espandersi e colonizzare l’intero pianeta, ed è solo 12mila anni fa che i nostri progenitori si sono via via trasformati, da cacciatori nomadi, in agricoltori sedentari. Si tratta di un passaggio che, nell’argomentazione dei due autori, assume una grande rilevanza, soprattutto nel ricordare come la nostra storia culturale sia iniziata con quei cacciatori-raccoglitori che dall’Africa colonizzarono ogni continente, senza avvertire alcuna necessità di dominio. L’istituzione della proprietà privata, dello schiavismo e della guerra inizia con il passaggio all’economia di agricoltura e allevamento. Che sono d’altra parte un passo in avanti verso quello che noi chiamiamo, e a buon diritto, visto che ha reso la nostra vita meno breve e brutale, “civiltà”.
Il passaggio dai cacciatori-raccoglitori all’agricoltura e all’allevamento non era necessario, ma ha avuto luogo, e si è trasformato in un destino, almeno nel senso che costituisce ancora il nostro presente. È indiscutibile che non solo in una azione militare, ma in una competizione sportiva, in un litigio su Facebook, sino a un battibecco tra accademici abbiamo l’azione di quella remota trasformazione della natura umana. Una natura che è indubbiamente più dinamica di quella dei cacciatori-raccoglitori; una natura che è bravissima a culturalizzarsi, e che si rivela come intrinsecamente incline a creare valori, norme, descrizioni e classificazioni. Ciò che purtroppo non sempre si considera è che questo dispiegamento culturale non è immune dal male o dall’orrore. Il tentativo di Padoan, come umanista, è di sottoporre a uno scienziato come Cavalli-Sforza la permanenza nel pensiero scientifico (e filosofico) di quella “gerarchia del disprezzo” il cui precipizio abbiamo visto in Auschwitz.
Ed è da questo confronto che emerge il tema ricorrente del dialogo, l’orrore, appunto, la ricerca delle radici culturali dell’orrore, proprio come in Cuore di tenebra di Conrad. L’orrore di ciò che hanno fatto i nostri antenati lontani e vicini, e assunti come modelli di civiltà (si consideri lo statuto delle donne e degli schiavi nella Grecia classica). L’orrore di civiltà che conosciamo appena. E ovviamente l’orrore che ha avuto luogo nel cuore della nostra civiltà, come appunto dimostrano i campi di sterminio. Alla cui origine non c’è la follia o la barbarie, ma la propensione a catalogare l’umano e il vivente secondo tassonomie e gerarchie, in un continuo slittamento di soglia tra uomo e animale. Non dimentichiamolo: il Kurtz di Conrad non è solo colui che orna la propria capanna di teschi umani, ma anzitutto colui che, su richiesta della “Associazione Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi” scrive una relazione che «Iniziava asserendo che noi bianchi, per via del livello di sviluppo che abbiamo raggiunto, “dobbiamo per forza sembrare a loro [ai selvaggi] come esseri soprannaturali – li avviciniamo con il potere di una divinità”».

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Razzismo e noismo sull’Enciclopedia Treccani

L.L. Cavalli-Sforza, D. Padoan
Razzismo e noismo. Le declinazioni del Noi e l’esclusione dell’altro
Passaggi Einaudi
2013
pp. XIV – 330

http://www.treccani.it/scuola/itinerari/un_libro/rec_408.html

Non c’è dubbio che gli uomini siano assillati dal bisogno di definirsi, prima che di conoscersi. La storia del pensiero dell’uomo intorno a sé stesso porta tracce profonde di questa urgenza, che nei secoli si è sedimentata in un insieme di dogmi e pregiudizi che guidano inconsapevolmente il nostro sguardo sugli altri e sulle cose, e su cui oggi è necessario tornare a riflettere. Razzismo e noismo è in effetti un tentativo di riprendere alcune delle domande fondamentali sul nostro essere uomini, anche alla luce delle riflessioni e scoperte che – a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ma in particolare negli ultimi decenni – hanno portato il mondo scientifico e filosofico a rivedere in molti punti la storia dell’evoluzione e dell’origine della nostra specie.

Il testo si presenta come un dialogo tra due importanti studiosi: un celebre scienziato noto soprattutto per i suoi contributi nel campo della genetica delle popolazioni applicata allo studio della storia delle migrazioni umane (Luca Cavalli-Sforza), e una scrittrice e saggista che da tempo si occupa di testimonianza dei genocidi del Novecento e di resistenza femminile alle dittature (Daniela Padoan). La scelta della forma dialogica – una forma tipicamente aperta, aporetica, ricorsiva, in opposizione alla linearità e l’assertività tipiche del saggio – riflette sul piano stilistico l’intento programmatico di «ricercare […] un ponte tra due linguaggi (quello scientifico e quello umanistico) che di norma procedono su strade parallele». Da questo punto di vista, l’articolazione del libro in cinque grandi capitoli non riflette una partizione netta dei contenuti ma resta invece permeabile alla digressione, al ripensamento, all’approfondimento.

Il concetto di «noismo» – neologismo con cui Luca Cavalli-Sforza propone di tradurre l’inglese we-ness – fa riferimento alla«funzionalità delle nostre azioni nei confronti del gruppo sociale al quale apparteniamo». In questo senso il noismo è inseparabile dall’esistenza umana ed è declinabile in tanti modi (ad esempio: campanilismo, nazionalismo, razzismo, altruismo) quante sono le forme del “noi” in cui di volta in volta ci riconosciamo.

Ma è proprio la categoria del “noi” a trovarsi costantemente interrogata nel corso della ricerca: in cosa consistono – si chiedono infatti i due studiosi – quei “noi” in cui oggi per lo più ci riconosciamo, e da dove vengono? L’assimilazione acritica di modelli relazionali strutturalmente ideologizzati (prima di tutto il linguaggio) ci porta infatti ad accogliere come “dati di fatto” un insieme di postulati sulla natura del mondo – e di conseguenza sul nostro posto in esso – senza riconoscerne il carattere di prodotto culturale storicamente determinato. Di fatto, molti dei presupposti che oggi guidano le nostre scelte identitarie affondano le loro radici nella complessa storia delle trasformazioni che hanno portato una ristretta parte del genere homo a stabilire progressivamente un dominio incontrastato sulla natura e sui suoi simili.

La «specie prepotente» – così Luca Cavalli-Sforza ha ribattezzato homo sapiens moderno, o sapiens sapiens – ha fatto la sua comparsa in Sudafrica circa 200.000 anni fa e si è ben presto affermata come egemone, soppiantando o sovrapponendosi alle specie di homo già esistenti. Per 190 millenni ha vissuto di caccia e raccolta, in un assetto sociale, per quanto ci è dato sapere, sostanzialmente egualitario e pacifico, come quello che ancora oggi caratterizza le (poche) società tribali rimaste nel mondo.

La rivoluzione agricola modifica radicalmente questo scenario, introducendo la divisione del lavoro e generando così una serie di squilibri nella gestione e distribuzione delle risorse. Nasce la proprietà individuale e con essa emergono le prime forme di differenziazione socioeconomica: «l’emergere di una classe egemone e l’accentramento progressivo della proprietà terriera è alla base della creazione delle città-stato e degli imperi, e con essi delle leadership e dei conflitti; con il sorgere di entità strutturate sempre più grandi [...] l’ordine si è progressivamente identificato con un gruppo ristretto, l’oligarchia, o con una singola persona, il despota, il monarca, l’imperatore o il dittatore: il punto di riferimento collettivo, il simbolo per il quale si fanno le guerre». In questo processo è ravvisabile, secondo Cavalli-Sforza, la genesi del noismo, il cui strutturarsi «disegna cerchi del noi sempre più normativi, che presuppongono gli altri come nemici».

La definizione del noi, dunque, è imprescindibile dalla determinazione dell’alterità, che ne rappresenta il correlato naturale. I differenti modi di nominare l’altro corrispondono in effetti ad altrettante declinazioni dell’identità collettiva. In questo senso il linguaggio si costituisce innanzitutto come il luogo nativo dell’identità e del riconoscimento; ma esso diviene anche il luogo privilegiato dell’espressione di una prepotenza socialmente codificata, là dove si fa portatore di un’esigenza – quasi una pretesa – di ordinamento della molteplicità e gestione della differenza: «Il noi espansivo, vincente, si è declinato come appartenenza maschile, competenza razionale, possesso di anima e virtù […] L’uomo maschio, bianco, europeo […] nella sua storia e nella storia dei concetti con cui pensa il mondo, per definirsi ha dovuto distinguersi da ciò che non è: dall’animale, dalla donna, dal primitivo, dal barbaro […] La collocazione entro le gerarchie del sesso, del logos, dell’animale, del mostro, fanno da sfondo e talvolta da nucleo alle teorie razziste, incluse quelle che andarono ad alimentare l’ideologia nazista della razza».

Questa tendenza alla gerarchizzazione della vita e del vivente – che ha informato e informa in modo consistente anche le scienze moderne – mira in ultima analisi a spogliare il prossimo della sua irriducibile alterità, intenzionandolo come oggetto di un processo conoscitivo unidirezionale. Un declinare l’altro alla “terza persona”, che ci permette di ignorare quel richiamo all’ascolto e alla responsabilità implicito nella sua prossimità, facendone piuttosto un che di conosciuto, di oggettivo. È forse allora proprio questo atteggiamento oggettivante il filo rosso attraverso cui si svolge la storia del disprezzo dell’uomo per l’uomo. L’urgenza di definire sé stesso in opposizione all’animale, il dominio di genere, la proclamazione di una condizione di schiavitù “secondo natura”, le deportazioni e i genocidi degli ultimi due secoli si rivelano in qualche modo come il prodotto di una dinamica comune: il bisogno di nascondere l’altro a sé stessi, per scampare l’incognita dell’incontro.

Alessandro Salpietro

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