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La solitudine del testimone e il “canone” della Shoah

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 27 gennaio 2012

Shoah, la rivolta degli ultimi testimoni

di DANIELA PADOAN


Nel cinquantennale della liberazione dei campi, Elie Wiesel e Jorge Semprún vennero invitati per un faccia a faccia dalla trasmissione televisiva francese Entretien – ARTE. Wiesel era stato deportato ad Auschwitz come ebreo, Semprún a Buchenwald come politico. L’incontro si concluse con parole abissali alle quali ancora oggi è difficile sottrarsi. «Io me lo immagino: un giorno o l’altro, tra qualche anno, poniamo, si troverà l’ultimo rimasto. L’ultimo sopravvissuto. […] Non vorrei essere al suo posto», disse Wiesel. Semprún annuì: «Penso a quell’uomo, a quella donna, se mai arrivasse a saperlo… Sì, perché in pratica non lo saprà mai. Immagina una troupe televisiva che arriva e comincia: “Signore, signora, lei è l’ultimo superstite”. Quello che fa? Si uccide». Wiesel scrollò la testa: «No, io preferisco pensare che verrà subissato di domande. Domande d’ogni genere. Tutte, proprio tutte. E lui le ascolterà, senza eccezioni. Dopodiché, tutto finirà con un’alzata di spalle. “E va bene”, diranno, “e con questo?” E allora lui dirà…». Semprún lo interruppe: «Se non sarà il suicidio, sarà il silenzio. Il risultato non cambia». «È il silenzio fecondo», disse Wiesel, «l’ultimo. Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». «E io nemmeno».

Sembra un dialogo di Beckett, eppure, a diciassette anni di distanza, i sopravvissuti non possono che guardare con crescente inquietudine a questa prospettiva; non solo perché, inevitabilmente, anno dopo anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si perpetua una solitudine e addirittura un’offesa. Non è facile parlare di questo argomento, nei convegni e negli incontri in cui si riflette sulla memoria e sull’insegnamento della Shoah: la compulsione a contrapporre conoscenza e sentimenti, storiografia ed empatia, scatta immediata. Il punto, però, è che non si tratta di scegliere tra la verità storica e il sentimentalismo, ma di porsi un’interrogazione pienamente politica: che società è, quella che non sa rispettare i testimoni del suo stesso precipizio, dello scacco della sua stessa cultura?

Ci interroghiamo sul testimone, ragioniamo sulla sua affidabilità, sul suo ripetere con le stesse parole la medesima storia, teorizziamo sullo statuto della testimonianza; ma chi siamo, noi, visti con gli occhi del testimone? Quest’anno, sia Goti Bauer che Liliana Segre, due fra le più importanti e attive testimoni italiane di Auschwitz, hanno deciso di diradare le loro uscite pubbliche e progressivamente smettere di testimoniare. «Non voglio correre il rischio di essere l’ultimo dei mohicani», ha detto Liliana Segre, mentre Goti Bauer ha parlato apertamente di una «delusione della testimonianza».

Sempre più, il testimone somiglia al vecchio marinaio di Coleridge evocato da Primo Levi; non già scacciato dal banchetto del matrimonio, ma seduto al posto d’onore, e tuttavia ingombrante, colmato di paternalistiche e sbrigative attenzioni. Non gli si impedisce di parlare, lo si sollecita, anzi, nei giorni deputati, ma il suo dire continua a non avere la gravità che Levi immaginava nelle notti del Lager.

La Shoah è stata istituzionalizzata, stilizzata, e su di essa è stato fondato un rito morale-politico che ne rende il pensiero estraneo agli uomini. Secondo Imre Kertész – sopravvissuto di Auschwitz, premio Nobel per la letteratura, e tuttavia anch’egli acutamente consapevole dell’«onda anomala della delusione» che si è abbattuta sui testimoni – si è creato «un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto, accompagnato da un mondo linguistico e religioso; sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto». Una subcultura, e persino un «kitsch dell’Olocausto». Perché «ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto; che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane».

In questi giorni di commemorazione si è molto parlato dei sopravvissuti come vittime, si è raccontato di case di accoglienza per dar loro sostegno, ma non si è mai nominata la loro signoria, il loro sapere qualcosa che noi ignoriamo, la loro doppia cittadinanza tra i vivi e tra i morti. Il testimone che ci guarda è il nostro specchio, l’inviato nell’avamposto più estremo: accogliere il suo verdetto può essere un salutare rovesciamento, l’ultimo invito a dubitare di alcuni dei mattoni con cui la nostra cultura ha edificato Auschwitz.

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I demoni del deserto, di Bijan Zarmandili

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 25 novembre 2011

 

Sulla strada con Zarmandili

 

di DANIELA PADOAN

“Il vecchio e la ragazza camminano discosti l’uno dall’altra. Lei qualche passo indietro, lui assorto e distante, come fosse l’unico superstite sulla terra dopo il finimondo”. È il 26 dicembre 2003 e la città di Bam, nell’Iran meridionale, è stata distrutta da un terremoto. La tredicenne Hakimé – taciturna creatura dagli occhi verdi, occhi zagh, visitati da incubi e visioni – e suo nonno Agha Soltani, dietro di sé hanno solo rovine e distruzione. Proprio come l’Angelus Novus di Benjamin, posto significativamente in esergo, il vecchio Agha Soltani vorrebbe “trattenersi, destare i morti, ricomporre l’infranto”, ma un vento lo spinge verso il futuro, verso il deserto e il mare, in un mondo dove i venti hanno nomi e sono capaci, come il Bad-e-saba e il Bad-e-margh, di portare amore, morte, follia, devastazione. Agha Soltani lascerà l’ordine ormai frantumato della sua vita, i figli seppelliti sotto le macerie, per assumersi la responsabilità della nipote, presenza perturbante, familiare ed estranea al tempo stesso, con la sua bellezza, le sue mani che disegnano voli d’uccelli, la sua ossessione per il sangue. Questa indimenticabile coppia di superstiti incontrerà uomini capaci della più intima condivisione e uomini pronti a vedere l’altro come cosa: mercanti di bambini, di bambine, piccoli orfani ghermiti nel momento del disastro. Non l’esotismo dei predoni del deserto, delle fanciulle per gli harem, ma la cifra del nostro mondo, dove la vita è merce, spesso di poco valore e talvolta addirittura di nessun valore, eliminabile industrialmente. Visto da Bijan Zarmandili – scrittore nato a Teheran ed esule in Italia, capace di una mitezza efferata e di un italiano così sontuoso da poter essere asciugato fin quasi ad apparire scarno, tanto da lasciare che la bellezza e l’incanto emergano come un’evidenza dimentica del proprio autore – il terremoto di Bam non può che rappresentare la distesa di macerie del Novecento: il secolo che ha visto masse di individui trasformati in profughi, esuli, Displaced Persons; il secolo che il grande scrittore e sopravvissuto di Auschwitz Imre Kértesz, nel suo discorso del Nobel, definì “lo stadio terminale della grande avventura cui l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura etica e morale”. La peregrinazione del nonno e della nipote diventa allora un tentativo di riscrivere questa cultura, di ricominciare a tessere i fili spezzati delle relazioni, in cerca del volto dell’Altro.

Agha Soltani è un uomo che a settant’anni decide di ripensare la propria vita, di ricominciarla assumendo i suoi lutti, i suoi fallimenti, facendo un inventario di ciò che resta, di ciò che ha valore: delle scelte ancora da compiere, come si potesse ancora e sempre imparare – quando non si rimanga imprigionati da se stessi, dalla propria esistenza – e trovare un nuovo sguardo nutrito dalla libertà, dall’amore e dall’accettazione del caos. Dopo il terremoto, “la vecchiaia a lungo preparata si è trasformata in un fardello senza senso, ingombrante”; resta invece la vita, e la possibilità di fare di se stessi un varco. La piccola Hakimé, alla fine di un’avventura che, per quanto violenta, non è stata in grado di toccarla, aprirà uno spiraglio nel muro che la tiene separata dal mondo: “Portami a casa, nonno”. E non importa che non esista più una casa, perché Agha Soltani si è fatto egli stesso il luogo del ritorno. È la fine dell’esilio: la scoperta che la fine dell’esilio è dentro di sé.

Bijan Zarmandili, I demoni del deserto, Nottetempo, pp. 260

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Walsh e Verbitsky. “Benedetti assassini”

“Saturno”, supplemento culturale de “Il Fatto Quotidiano”,

14 Ottobre 2011

Argentina. Benedetti assassini

I libri di Walsh e di Verbitsky: due testimonianze importanti sui massacri golpisti e sulle gravi responsabilità della Chiesa

di DANIELA PADOAN

 

DUE LIBRI, all’apparenza inattuali, escono contemporaneamente, legati da fili espliciti e sotterranei: Operazione massacro di Rodolfo Walsh – un implacabile reportage basato su cronache e testimonianze di un massacro di civili perpetrato dalla giunta golpista che, nel 1955, destituì Juan Domingo Perón – e Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare di Horacio Verbitsky, una serrata inchiesta sulle responsabilità della Chiesa nel golpe del 1976.
Sul versante cronologico, il colpo di stato del 1955 è la condizione di possibilità del precipizio che, appena vent’anni dopo, avrebbe causato trentamila desaparecidos. Sul versante della coscienza civile, Walsh è il solco nel quale si inscrive l’accanita testimonianza civile di Verbitsky. Entrambi dedicheranno la propria esistenza a dire cos’è il potere assoluto, la sopraffazione dei singoli, il trionfo cieco dell’istituzione. Entrambi costituiscono, oggi, una figura di assunzione di responsabilità di fronte al tempo che ci tocca in sorte; di parresia, secondo il Foucault dell’ultimo seminario, dove il dire il vero al tiranno, a rischio della morte, diviene fondamento della polis.
Nei primi anni della dittatura militare, i prigionieri della Scuola di meccanica della Marina – specializzata nel sequestro e nella tortura dei montoneros – venivano caricati sugli aerei e gettati ancora vivi nei fiumi o nel Mar de la Plata, con un blocco di cemento ai piedi, perché i cadaveri non riemergessero. Una volta a bordo, un medico praticava loro un’iniezione di pentotal nel cuore, soprannominata goliardicamente “pentonaval” dagli ufficiali della Marina. Al ritorno dei voli della morte, i cappellani militari davano l’assoluzione a chi fosse occasionalmente visitato da rimorsi, perché, assicuravano, avevano agito per il bene della patria, contro il pericolo della sovversione. Non si trattava, però, soltanto di singoli funzionari ecclesiastici: secondo la puntuale ricostruzione di Verbitsky, lo stesso monsignor Adolfo Tortolo, presidente della conferenza episcopale argentina e vicario castrense di Buenos Aires, difese la tortura con argomenti teologici e, il 27 giugno del 1976, dunque tre mesi dopo il golpe, il Nunzio apostolico inviato dal Vaticano in Argentina, monsignor Pio Laghi, affermò, in un’omelia contro i “sovversivi” e i comunisti, che «il paese ha un’ideologia tradizionale, e quando qualcuno pretende di imporre altre idee diverse ed estranee, la nazione reagisce come un organismo, con anticorpi di fronte ai germi, e nasce così la violenza. I soldati adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria che si trova in pericolo […]. Questo provoca una situazione di emergenza e, in simili circostanze, si può applicare il pensiero di san Tommaso d’Aquino, il quale insegna che l’amore per la Patria si equipara all’amore per Dio».
Il testo integrale dell’omelia venne allegato, nel maggio 1997, alla denuncia che le Madri di Plaza de Mayo presentarono al ministero italiano di Grazia e giustizia contro Pio Laghi. La loro formazione era cattolica, così come quella di molti desaparecidos che si erano avvicinati alla teologia della liberazione, e questo rese ancora più insopportabile ai loro occhi che Pio Laghi, anziché essere inquisito, venisse promosso alla nunziatura apostolica degli Stati Uniti, successivamente elevato al rango di Prefetto del dicastero Vaticano dell’Educazione Cattolica nel mondo, e infine addirittura indicato come probabile successore di Giovanni Paolo II al soglio pontificio. Proprio come Verbitsky era passato da un varco, aperto dalle dichiarazioni dei cappellani militari, per arrivare fino alle alte gerarchie della chiesa, Rodolfo Walsh, che fu suo maestro – non appena venuto in possesso delle prime testimonianze del massacro di un gruppo di innocenti sospettati di attività sovversive – intuì che le responsabilità non erano imputabili a una caserma periferica, ma che in Argentina non c’era più scampo alla sopraffazione militare e poliziesca. Indagò, e da un episodio apparentemente marginale, andò al cuore ideologico della dittatura, dando inizio, un anno prima di Truman Capote, al cosiddetto new journalism, un nuovo genere letterario fondato su cronaca e fiction. In Argentina trascorsero vent’anni di alterne vicende politiche, di chiusure dispotiche e di speranze democratiche, fino al precipizio del 1976. Un anno esatto dopo che i militari avevano preso il potere, il 24 marzo del 1977, Walsh scrisse una lettera aperta al regime, «con la certezza di essere perseguitato», per chieder conto degli scomparsi: studenti, operai, sindacalisti, giornalisti, oppositori, tra cui la sua stessa figlia. Il giorno dopo venne sequestrato e ucciso. Il suo corpo non fu mai ritrovato.


Rodolfo Walsh, Operazione Massacro, introduzione di Alessandro Leo-grande, La nuova frontiera, pagg. 256, 12,00;

Horacio Verbitsky, Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare, Fandando, pagg. 723, • 22,00.

Daniela Padoan è autrice di Le Pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Majo, Bompiani, pagg. 432, • 9,50

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Riccardo Chiaberge e “Saturno”

8 ottobre 2011, ore 16

La fiera delle parole

Padova, Libreria Feltrinelli

DANIELA PADOAN presenta

RICCARDO CHIABERGE e SATURNO, settimanale di cultura de “Il Fatto Quotidiano”

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Intervista a Haytham Manna per “Saturno”, supplemento di cultura del “Fatto Quotidiano”

Torna Saturno con i vostri libri interrotti Qual è dunque il vostro libro interrotto? Il gioco dell’estate di Saturno, con il quale abbiamo chiesto ai lettori di dirci quale libro non sono mai riusciti a terminare, torna con i risultati. I vostri risultati.

Più di millesettecento lettori di si sono sfogati sul nostro blog per denunciare al mondo quelle palle di libri che non sono mai riusciti a finire! Se lo erano tenuto dentro in molti che Il pendolo di Foucault, come pure Il cimitero di Praga, sono una noia mortale. A Umberto Eco spetta la palma d’oro per la frequenza. Come scrive il lettore “Xelt“, «L’ultimo di Umberto Eco. Ho dovuto tenermi accanto una enciclopedia, per seguire il filo del discorso e capirci qualcosa. Caro Eco, se compro un romanzo – benché serio e impegnato – non è per sostenere il prossimo esame di storia o filosofia o chissà che altro». Ma ci sono anche Il Signore degli Anelli di Tolkien, come anche La montagna incantata di Thomas Mann. Ma anche qualche intoccabile come Gabriel Garcia Márquez. Scrive “Deustype“: «Cent’anni di solitudine di G. G. Márquez, due palle incredibili!!! Grazie per avermi dato la possibilità dopo anni di averlo potuto dire pubblicamente… L’avevo nascosto alla mia fidanzata dell’epoca che me l’aveva consigliato come il libro più bello mai scritto e l’ho trovato di una noia mortale. Mi sono tolto un peso!» E poi ci sono libri “pericolosi”, almeno come ci racconta il lettore “Stefanodinardo“: «Reparto C di Solzenicyn (secondo me porta sfiga: tre volte incominciato a leggere e tre volte fratturato – femore, vertebra e bacino) e Il Signore degli Anelli per tre motivi: pesantezza espressa in kg del libro, pesantezza linguistica e poi ccheppppallestihobbit. Un saluto a tutti dal mio letto (ovviamente per colpa della frattura del bacino ovvero vedi sopra)». Quali altri libri ci saranno? Domani tutte le classifiche, con la pubblicazione dei commenti più divertenti, curiosi e bizzarri che ci avete mandato.

Quali sono i gialli più intriganti in libreria? Andrea Fazioli racconta e analizza i migliori che ci aspettano questo autunno.

E poi due pagine dedicate alla rabbia dei paesi arabi, con i testi di ‘Ala al-Aswani, Ian Buruma, Igiaba Scego e Daniela Padoan.

Inoltre l’arte di Tomaso Montanari, il teatro di Camilla Tagliabue, la musica di Enzo Gentile e il cinema di Gianni Canova. Senza dimenticare la puntura della vespa di Riccardo Chiaberge.

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Vasilij Grossman, “Il bene sia con voi!”

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 6 maggio 2011

PERCORSI

Brindisi con l’armeno

di DANIELA PADOAN


Una continua interrogazione morale di fronte all’estremo, un’interrogazione tolstojana messa alla prova dei campi di sterminio nazisti, dei gulag sovietici, delle deportazioni di massa, dell’inesplicabile trasformazione di uomini miti in delatori e assassini. Ecco Il bene sia con voi!, raccolta di otto racconti scritti tra il 1943 e il 1963 da Vasilij Grossman.

«Le pecore hanno gli occhi chiari – acini d’uva e di vetro. Le pecore hanno un profilo umano – ebreo, armeno, misterioso, indifferente, stupido. Sono millenni che i pastori guardano le pecore. Le pecore guardano i pastori, e ormai hanno preso a somigliarsi. È come se gli occhi delle pecore guardassero gli uomini in un modo particolare, con uno sguardo assente, vitreo; gli occhi dei cavalli, dei cani e dei gatti li guardano diversamente, gli uomini… E con quello stesso sguardo colmo di disgusto e assente gli abitanti del ghetto avrebbero guardato i loro carcerieri della Gestapo, se i ghetti fossero esistiti da cinquemila anni e se ogni giorno di quei cinque millenni gli uomini della Gestapo avessero prelevato vecchi e bambini per sterminarli nelle camere a gas».

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Aharon Appelfeld, “L’amore, d’improvviso”

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 8 aprile 2011

PERCORSI

L’infinita tribù dei senza terra

di DANIELA PADOAN


“Mentre ci riuniamo, in questa sala elegante e ben illuminata, in questa fredda sera di dicembre, per discutere sulla sorte dello scrittore in esilio, soffermiamoci per un minuto a immaginare alcuni di coloro che, per ovvie ragioni, non ce l’hanno fatta a mettere piede in questa sala” disse Iosif Brodskij nel 1987, nel corso di una conferenza dal titolo La condizione che chiamiamo esilio. Parlava dello spaesamento dei Gastarbeiter turchi in Germania, dei boat people vietnamiti sballottati in mare, delle folle di etiopi che cecavano di sfuggire alla carestia attraversando il deserto. Uno scenario sorprendentemente simile – per quanto ogni volta percepito come emergenziale, biblico – fa da sfondo, in questi giorni, a ogni possibile riflessione sull’esilio.

Esule è colui che è ex solo, bandito o fuggito dal suolo. Nella seconda metà del Novecento, le dittature e le guerre che hanno funestato pressoché ogni continente hanno bandito o costretto alla fuga masse innumerevoli di esseri umani.  La Seconda guerra mondiale, nel suo aspetto di guerra ai civili, è stata una fucina di sfollati, deportati, Displaced Persons: un esperimento a cielo aperto di sradicamento, trasferimento coatto, ridefinizione di confini e di appartenenze culturali e linguistiche entro quelle labili entità che sono gli stati e le nazioni. E se nei secoli non si contano gli scrittori esiliati, nel Novecento la lista diventa vertiginosa.

L’esilio, anche quello più dorato, «sa di sale», come ben sapeva Dante. Una «condizione abnorme, malata, quando il proprio paese diventa la terra più profondamente straniera, nemica e inquietante!» disse Thomas Mann nel corso di una conferenza tenuta a Washington nella drammatica estate del 1943, dieci anni dopo aver abbandonato la Germania, dove non avrebbe mai più messo piede. Continua a leggere

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