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Maurizio Ferraris recensisce Razzismo e noismo, il saggio di Luigi Luca Cavalli-Sforza e Daniela Padoan

Alle radici culturali della civiltà dell’orrore

Maurizio Ferraris, “La Repubblica”, 14 gennaio 2014

 

”Tra pochi giorni, il 27 gennaio, si celebrerà il giorno della memoria, e si ripresenterà un classico interrogativo: come è possibile che, nel cuore dell’Europa, una popolazione altamente civilizzata abbia compiuto uno sterminio su base razziale, ideando e allestendo su scala industriale quei lager che costituiscono una cesura nella nostra storia? E che significato dobbiamo dare a tutto questo, oltre a quello, ovvio e doveroso, del monito affinché ciò non abbia più luogo? In Razzismo e Noismo (Einaudi) un’umanista, Daniela Padoan, e uno scienziato, Luigi Luca Cavalli-Sforza, appartenenti a generazioni diverse e con idee spesso in contrasto, tentano e riescono a pensare fuori dagli specialismi proponendo una illuminante chiave di lettura. Quello che si è manifestato nei campi di sterminio non è semplicemente l’aberrazione di una ideologia, né meno che mai (come talvolta si suggerisce, non senza razzismo) lo spirito tenebroso di un popolo, ma piuttosto l’inconscio a cielo aperto dell’umanità.
I dati sono semplici. 200 milioni di anni fa ci siamo separati dagli uccelli, 65 milioni di anni fa dai cavalli, e solo da 7 o 5 milioni di anni ci siamo separati dagli scimpanzé, con i quali condividiamo il 98% del Dna. Ma è centomila anni fa che Homo sapiens sa- piensè uscito dall’Africa per espandersi e colonizzare l’intero pianeta, ed è solo 12mila anni fa che i nostri progenitori si sono via via trasformati, da cacciatori nomadi, in agricoltori sedentari. Si tratta di un passaggio che, nell’argomentazione dei due autori, assume una grande rilevanza, soprattutto nel ricordare come la nostra storia culturale sia iniziata con quei cacciatori-raccoglitori che dall’Africa colonizzarono ogni continente, senza avvertire alcuna necessità di dominio. L’istituzione della proprietà privata, dello schiavismo e della guerra inizia con il passaggio all’economia di agricoltura e allevamento. Che sono d’altra parte un passo in avanti verso quello che noi chiamiamo, e a buon diritto, visto che ha reso la nostra vita meno breve e brutale, “civiltà”.
Il passaggio dai cacciatori-raccoglitori all’agricoltura e all’allevamento non era necessario, ma ha avuto luogo, e si è trasformato in un destino, almeno nel senso che costituisce ancora il nostro presente. È indiscutibile che non solo in una azione militare, ma in una competizione sportiva, in un litigio su Facebook, sino a un battibecco tra accademici abbiamo l’azione di quella remota trasformazione della natura umana. Una natura che è indubbiamente più dinamica di quella dei cacciatori-raccoglitori; una natura che è bravissima a culturalizzarsi, e che si rivela come intrinsecamente incline a creare valori, norme, descrizioni e classificazioni. Ciò che purtroppo non sempre si considera è che questo dispiegamento culturale non è immune dal male o dall’orrore. Il tentativo di Padoan, come umanista, è di sottoporre a uno scienziato come Cavalli-Sforza la permanenza nel pensiero scientifico (e filosofico) di quella “gerarchia del disprezzo” il cui precipizio abbiamo visto in Auschwitz.
Ed è da questo confronto che emerge il tema ricorrente del dialogo, l’orrore, appunto, la ricerca delle radici culturali dell’orrore, proprio come in Cuore di tenebra di Conrad. L’orrore di ciò che hanno fatto i nostri antenati lontani e vicini, e assunti come modelli di civiltà (si consideri lo statuto delle donne e degli schiavi nella Grecia classica). L’orrore di civiltà che conosciamo appena. E ovviamente l’orrore che ha avuto luogo nel cuore della nostra civiltà, come appunto dimostrano i campi di sterminio. Alla cui origine non c’è la follia o la barbarie, ma la propensione a catalogare l’umano e il vivente secondo tassonomie e gerarchie, in un continuo slittamento di soglia tra uomo e animale. Non dimentichiamolo: il Kurtz di Conrad non è solo colui che orna la propria capanna di teschi umani, ma anzitutto colui che, su richiesta della “Associazione Internazionale per la Soppressione dei Costumi Selvaggi” scrive una relazione che «Iniziava asserendo che noi bianchi, per via del livello di sviluppo che abbiamo raggiunto, “dobbiamo per forza sembrare a loro [ai selvaggi] come esseri soprannaturali – li avviciniamo con il potere di una divinità”».

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Razzismo e noismo sull’Enciclopedia Treccani

L.L. Cavalli-Sforza, D. Padoan
Razzismo e noismo. Le declinazioni del Noi e l’esclusione dell’altro
Passaggi Einaudi
2013
pp. XIV – 330

http://www.treccani.it/scuola/itinerari/un_libro/rec_408.html

Non c’è dubbio che gli uomini siano assillati dal bisogno di definirsi, prima che di conoscersi. La storia del pensiero dell’uomo intorno a sé stesso porta tracce profonde di questa urgenza, che nei secoli si è sedimentata in un insieme di dogmi e pregiudizi che guidano inconsapevolmente il nostro sguardo sugli altri e sulle cose, e su cui oggi è necessario tornare a riflettere. Razzismo e noismo è in effetti un tentativo di riprendere alcune delle domande fondamentali sul nostro essere uomini, anche alla luce delle riflessioni e scoperte che – a partire dalla seconda metà del secolo scorso, ma in particolare negli ultimi decenni – hanno portato il mondo scientifico e filosofico a rivedere in molti punti la storia dell’evoluzione e dell’origine della nostra specie.

Il testo si presenta come un dialogo tra due importanti studiosi: un celebre scienziato noto soprattutto per i suoi contributi nel campo della genetica delle popolazioni applicata allo studio della storia delle migrazioni umane (Luca Cavalli-Sforza), e una scrittrice e saggista che da tempo si occupa di testimonianza dei genocidi del Novecento e di resistenza femminile alle dittature (Daniela Padoan). La scelta della forma dialogica – una forma tipicamente aperta, aporetica, ricorsiva, in opposizione alla linearità e l’assertività tipiche del saggio – riflette sul piano stilistico l’intento programmatico di «ricercare […] un ponte tra due linguaggi (quello scientifico e quello umanistico) che di norma procedono su strade parallele». Da questo punto di vista, l’articolazione del libro in cinque grandi capitoli non riflette una partizione netta dei contenuti ma resta invece permeabile alla digressione, al ripensamento, all’approfondimento.

Il concetto di «noismo» – neologismo con cui Luca Cavalli-Sforza propone di tradurre l’inglese we-ness – fa riferimento alla«funzionalità delle nostre azioni nei confronti del gruppo sociale al quale apparteniamo». In questo senso il noismo è inseparabile dall’esistenza umana ed è declinabile in tanti modi (ad esempio: campanilismo, nazionalismo, razzismo, altruismo) quante sono le forme del “noi” in cui di volta in volta ci riconosciamo.

Ma è proprio la categoria del “noi” a trovarsi costantemente interrogata nel corso della ricerca: in cosa consistono – si chiedono infatti i due studiosi – quei “noi” in cui oggi per lo più ci riconosciamo, e da dove vengono? L’assimilazione acritica di modelli relazionali strutturalmente ideologizzati (prima di tutto il linguaggio) ci porta infatti ad accogliere come “dati di fatto” un insieme di postulati sulla natura del mondo – e di conseguenza sul nostro posto in esso – senza riconoscerne il carattere di prodotto culturale storicamente determinato. Di fatto, molti dei presupposti che oggi guidano le nostre scelte identitarie affondano le loro radici nella complessa storia delle trasformazioni che hanno portato una ristretta parte del genere homo a stabilire progressivamente un dominio incontrastato sulla natura e sui suoi simili.

La «specie prepotente» – così Luca Cavalli-Sforza ha ribattezzato homo sapiens moderno, o sapiens sapiens – ha fatto la sua comparsa in Sudafrica circa 200.000 anni fa e si è ben presto affermata come egemone, soppiantando o sovrapponendosi alle specie di homo già esistenti. Per 190 millenni ha vissuto di caccia e raccolta, in un assetto sociale, per quanto ci è dato sapere, sostanzialmente egualitario e pacifico, come quello che ancora oggi caratterizza le (poche) società tribali rimaste nel mondo.

La rivoluzione agricola modifica radicalmente questo scenario, introducendo la divisione del lavoro e generando così una serie di squilibri nella gestione e distribuzione delle risorse. Nasce la proprietà individuale e con essa emergono le prime forme di differenziazione socioeconomica: «l’emergere di una classe egemone e l’accentramento progressivo della proprietà terriera è alla base della creazione delle città-stato e degli imperi, e con essi delle leadership e dei conflitti; con il sorgere di entità strutturate sempre più grandi [...] l’ordine si è progressivamente identificato con un gruppo ristretto, l’oligarchia, o con una singola persona, il despota, il monarca, l’imperatore o il dittatore: il punto di riferimento collettivo, il simbolo per il quale si fanno le guerre». In questo processo è ravvisabile, secondo Cavalli-Sforza, la genesi del noismo, il cui strutturarsi «disegna cerchi del noi sempre più normativi, che presuppongono gli altri come nemici».

La definizione del noi, dunque, è imprescindibile dalla determinazione dell’alterità, che ne rappresenta il correlato naturale. I differenti modi di nominare l’altro corrispondono in effetti ad altrettante declinazioni dell’identità collettiva. In questo senso il linguaggio si costituisce innanzitutto come il luogo nativo dell’identità e del riconoscimento; ma esso diviene anche il luogo privilegiato dell’espressione di una prepotenza socialmente codificata, là dove si fa portatore di un’esigenza – quasi una pretesa – di ordinamento della molteplicità e gestione della differenza: «Il noi espansivo, vincente, si è declinato come appartenenza maschile, competenza razionale, possesso di anima e virtù […] L’uomo maschio, bianco, europeo […] nella sua storia e nella storia dei concetti con cui pensa il mondo, per definirsi ha dovuto distinguersi da ciò che non è: dall’animale, dalla donna, dal primitivo, dal barbaro […] La collocazione entro le gerarchie del sesso, del logos, dell’animale, del mostro, fanno da sfondo e talvolta da nucleo alle teorie razziste, incluse quelle che andarono ad alimentare l’ideologia nazista della razza».

Questa tendenza alla gerarchizzazione della vita e del vivente – che ha informato e informa in modo consistente anche le scienze moderne – mira in ultima analisi a spogliare il prossimo della sua irriducibile alterità, intenzionandolo come oggetto di un processo conoscitivo unidirezionale. Un declinare l’altro alla “terza persona”, che ci permette di ignorare quel richiamo all’ascolto e alla responsabilità implicito nella sua prossimità, facendone piuttosto un che di conosciuto, di oggettivo. È forse allora proprio questo atteggiamento oggettivante il filo rosso attraverso cui si svolge la storia del disprezzo dell’uomo per l’uomo. L’urgenza di definire sé stesso in opposizione all’animale, il dominio di genere, la proclamazione di una condizione di schiavitù “secondo natura”, le deportazioni e i genocidi degli ultimi due secoli si rivelano in qualche modo come il prodotto di una dinamica comune: il bisogno di nascondere l’altro a sé stessi, per scampare l’incognita dell’incontro.

Alessandro Salpietro

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Daniela Padoan per “Il giorno della memoria” su Memoradio – Radio Tre

In occasione del 27 gennaio, quest’anno Memoradio ripropone le voci e le storie di Liliana Segre, Goti Bauer, Edith Bruck, Aldo Zargani, Piero Terracina, Liliana Picciotto, Daniela Padoan, Moreno Gentili, i ragazzi del liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, Pippo Delbono. Le testimonianze sono tratte da alcune delle puntate speciali che da un decennio Radio3 ha dedicato al Giorno della Memoria: “Questo è stato. Musiche, letture e riflessioni per il Giorno della Memoria”, in diretta dal Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano del 27 gennaio 2011 e “La Memoria della memoria”, in diretta dalla Casa della Memoria e della storia di Roma del 27 gennaio 2010.

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La solitudine del testimone e il “canone” della Shoah

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 27 gennaio 2012

Shoah, la rivolta degli ultimi testimoni

di DANIELA PADOAN


Nel cinquantennale della liberazione dei campi, Elie Wiesel e Jorge Semprún vennero invitati per un faccia a faccia dalla trasmissione televisiva francese Entretien – ARTE. Wiesel era stato deportato ad Auschwitz come ebreo, Semprún a Buchenwald come politico. L’incontro si concluse con parole abissali alle quali ancora oggi è difficile sottrarsi. «Io me lo immagino: un giorno o l’altro, tra qualche anno, poniamo, si troverà l’ultimo rimasto. L’ultimo sopravvissuto. […] Non vorrei essere al suo posto», disse Wiesel. Semprún annuì: «Penso a quell’uomo, a quella donna, se mai arrivasse a saperlo… Sì, perché in pratica non lo saprà mai. Immagina una troupe televisiva che arriva e comincia: “Signore, signora, lei è l’ultimo superstite”. Quello che fa? Si uccide». Wiesel scrollò la testa: «No, io preferisco pensare che verrà subissato di domande. Domande d’ogni genere. Tutte, proprio tutte. E lui le ascolterà, senza eccezioni. Dopodiché, tutto finirà con un’alzata di spalle. “E va bene”, diranno, “e con questo?” E allora lui dirà…». Semprún lo interruppe: «Se non sarà il suicidio, sarà il silenzio. Il risultato non cambia». «È il silenzio fecondo», disse Wiesel, «l’ultimo. Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». «E io nemmeno».

Sembra un dialogo di Beckett, eppure, a diciassette anni di distanza, i sopravvissuti non possono che guardare con crescente inquietudine a questa prospettiva; non solo perché, inevitabilmente, anno dopo anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si perpetua una solitudine e addirittura un’offesa. Non è facile parlare di questo argomento, nei convegni e negli incontri in cui si riflette sulla memoria e sull’insegnamento della Shoah: la compulsione a contrapporre conoscenza e sentimenti, storiografia ed empatia, scatta immediata. Il punto, però, è che non si tratta di scegliere tra la verità storica e il sentimentalismo, ma di porsi un’interrogazione pienamente politica: che società è, quella che non sa rispettare i testimoni del suo stesso precipizio, dello scacco della sua stessa cultura?

Ci interroghiamo sul testimone, ragioniamo sulla sua affidabilità, sul suo ripetere con le stesse parole la medesima storia, teorizziamo sullo statuto della testimonianza; ma chi siamo, noi, visti con gli occhi del testimone? Quest’anno, sia Goti Bauer che Liliana Segre, due fra le più importanti e attive testimoni italiane di Auschwitz, hanno deciso di diradare le loro uscite pubbliche e progressivamente smettere di testimoniare. «Non voglio correre il rischio di essere l’ultimo dei mohicani», ha detto Liliana Segre, mentre Goti Bauer ha parlato apertamente di una «delusione della testimonianza».

Sempre più, il testimone somiglia al vecchio marinaio di Coleridge evocato da Primo Levi; non già scacciato dal banchetto del matrimonio, ma seduto al posto d’onore, e tuttavia ingombrante, colmato di paternalistiche e sbrigative attenzioni. Non gli si impedisce di parlare, lo si sollecita, anzi, nei giorni deputati, ma il suo dire continua a non avere la gravità che Levi immaginava nelle notti del Lager.

La Shoah è stata istituzionalizzata, stilizzata, e su di essa è stato fondato un rito morale-politico che ne rende il pensiero estraneo agli uomini. Secondo Imre Kertész – sopravvissuto di Auschwitz, premio Nobel per la letteratura, e tuttavia anch’egli acutamente consapevole dell’«onda anomala della delusione» che si è abbattuta sui testimoni – si è creato «un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto, un sistema di tabù dell’Olocausto, accompagnato da un mondo linguistico e religioso; sono stati creati i prodotti dell’Olocausto per il consumismo dell’Olocausto». Una subcultura, e persino un «kitsch dell’Olocausto». Perché «ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non è in grado, o non vuole, comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto; che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane».

In questi giorni di commemorazione si è molto parlato dei sopravvissuti come vittime, si è raccontato di case di accoglienza per dar loro sostegno, ma non si è mai nominata la loro signoria, il loro sapere qualcosa che noi ignoriamo, la loro doppia cittadinanza tra i vivi e tra i morti. Il testimone che ci guarda è il nostro specchio, l’inviato nell’avamposto più estremo: accogliere il suo verdetto può essere un salutare rovesciamento, l’ultimo invito a dubitare di alcuni dei mattoni con cui la nostra cultura ha edificato Auschwitz.

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23 gennaio 2012 – La Shoah nella Casa Circondariale di Rovigo

Daniela Padoan presenta il suo documentario “Dalle leggi razziali alla Shoah”

Associazione Il Fiume, Rovigo

Casa Circondariale di Rovigo

Da almeno 5 anni l’Associazione il Fiume, grazie al contatto e al lavoro degli Operatori della Funzione Pubblica, che si occupano delle attività culturali ed educative, entra nella Casa Circondariale di Rovigo per parlare di Shoah ai detenuti che vi sono ospitati.

Offrire ai detenuti la possibilità di dedicare parte del tempo a disposizione, per discutere e riflettere sulla Shoah, è sicuramente positivo, e molti degli “ospiti” del carcere di Rovigo approfittano dell’occasione per avere un contatto con il mondo esterno.

Quest’anno è stata Daniela Padoan a dover prendere il testimone di Djana Pavlovic che, lo scorso anno, aveva raccontato loro il “Porrajmos”, ossia la persecuzione contro il popolo Rom-Sinti.

La scrittrice e giornalista ha condiviso con i detenuti la visione del documentario, prodotto per RAI3, “Dalle leggi razziali alla Shoah”  andato in onda nel 2008 in una puntata de “La grande storia”.  Il documentario è stato visto con grande attenzione dai circa 40 uomini e 7 donne che hanno aderito all’incontro, e con altrettanta attenzione, è stata ascoltata Daniela Padoan , donna di grande sensibilità e grazia, che ha parlato della perdita dei diritti civili e poi della deportazione dei civili ebrei italiani e non.

daniela padoan e luciano bombardaLa rappresentanza, in maggior parte di origine africana e magrebina, di solito si alza a chieder conto della vicenda Palestinese, mettendola in rapporto con la Shoah, ma l’impostazione data da Daniela Padoan nell’incontro di quest’anno, ha messo in luce gli aspetti preparatori del tragico evento, sottolineando come il razzismo fascista fosse allargato anche all’Africa e legato all’esperienza coloniale.
Questo ha fatto capire che il problema non erano tanto, o solo, gli ebrei, ma il clima che una dittatura aveva creato nell’Italia degli anni ’40 e che, forse, qualcuno sente oggi applicato anche alla propria condizione.

Gli interventi dei presenti, molto pacati e interessati, hanno messo il dito sulla piaga dell’Italia contemporanea, chiedendo se oggi si può trovare in Italia fascismo o antisemitismo, così Daniela Padoan ha spiegato in quali forme il fascismo si possa rigenerare e come oggi l’antisemitismo sia presente sotto forma di razzismo che permea molti strati della società cosiddetta “civile”.

L’attenzione dei presenti non è mai calata e gli assoli di chitarra di due giovani musicisti del Conservatorio “Francesco Venezze” di Rovigo, hanno sottolineato sia all’inizio che alla fine dell’incontro il clima positivo che si respirava nel carcere dove, come ha detto un detenuto, per riflettere ”…di tempo ce n’è tanto”.

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Giorno della memoria: “Tra immagine e immaginazione”

giovedì 26 gennaio 2012 -ore 21

Rimini, Cineteca comunale
Cconferenza di Daniela Padoan, scrittrice e regista, con la partecipazione di Andrea Minuz e Laura Fontana, sul tema “Tra immagine e immaginazione: è possibile, ancora, lasciarsi interrogare dal racconto della Shoah?”. Nel corso della serata verranno proiettati alcuni spezzoni di un filmato girato da Daniela Padoan in Polonia, sui luoghi della messa a morte di massa.

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27 gennaio 2012, Giorno della memoria – La responsabilità dello sguardo

Venerdì 27 gennaio, ore 17.30 – Sala Lignea Biblioteca Malatestiana, Cesena

“La memoria della Shoah e il dominio della cultura dell’immagine”


Daniela Padoan scrittrice e regista: “La responsabilità dello sguardo”
Andrea Minuz docente Università “La Sapienza” di Roma: “Il cinema della Shoah. Archivio, memoria, immaginario”

Il Comune di Cesena

in collaborazione con:

l’Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Forlì- Cesena
Il liceo “Immacolata” per le scienze Umane
Fondazione Elio Bisulli
Per informazioni e prenotazioni:
Segreteria Presidenza
del Consiglio Comunale
Tel. 0547 356246
e-mail: presidenzaconsiglio@comune.cesena.fc.it

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Giorno della memoria: Seminario di studio all’Università di Trieste

16 gennaio 2011, ore 15

“Quale memoria? La didattica della Shoah in Italia, tra politiche della memoria, retoriche di commemorazione e modelli di trasmissione”

presso l’Aula Magna in Androna Baciocchi, Trieste


Intervengono:

Georges Bensoussan (storico, Mémorial de la Shoah, Paris) – Un buon uso della memoria?

Daniela Padoan (scrittrice e saggista, Milano) – La solitudine del testimone il consumismo della Shoah;

Anna Foa (storica, Università di Roma “la Sapienza”) – Tra ritualizzazione e negazionismo: insegnare la Shoah oggi in Italia;

Betti Guetta e Francesca Costantini (ricercatrici Centro Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano): Voci dalle scuole: sintesi dei risultati dell’indagine sul viaggio ad Auschwitz della Provincia di Milano.
Interventi di:

Tristano Matta (IRSML-FVG, Presidente Istituto Livio Saranz);
Dunja Nanut (Istituto Livio Saranz, Presidente ANED Trieste);

Gaetano Dato (dottorando, Università di Trieste).

Moderano:

Tullia Catalan (ricercatrice DISCAM- Università di Trieste);

Laura Fontana (ricercatrice Mémorial de la Shoah).

A cura di:

DISCAM-Dipartimento di Storie e Culture dall’Antichità al Mondo Contemporaneo dell’Università di Trieste con il Mémorial de la Shoah di Parigi
in collaborazione con
la Comunità Ebraica di Trieste,
l’IRSML-FVG (Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia),
l’Istituto “Livio Saranz”.

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Aharon Appelfeld, “L’amore, d’improvviso”

“Saturno – Il Fatto Quotidiano”, 8 aprile 2011

PERCORSI

L’infinita tribù dei senza terra

di DANIELA PADOAN


“Mentre ci riuniamo, in questa sala elegante e ben illuminata, in questa fredda sera di dicembre, per discutere sulla sorte dello scrittore in esilio, soffermiamoci per un minuto a immaginare alcuni di coloro che, per ovvie ragioni, non ce l’hanno fatta a mettere piede in questa sala” disse Iosif Brodskij nel 1987, nel corso di una conferenza dal titolo La condizione che chiamiamo esilio. Parlava dello spaesamento dei Gastarbeiter turchi in Germania, dei boat people vietnamiti sballottati in mare, delle folle di etiopi che cecavano di sfuggire alla carestia attraversando il deserto. Uno scenario sorprendentemente simile – per quanto ogni volta percepito come emergenziale, biblico – fa da sfondo, in questi giorni, a ogni possibile riflessione sull’esilio.

Esule è colui che è ex solo, bandito o fuggito dal suolo. Nella seconda metà del Novecento, le dittature e le guerre che hanno funestato pressoché ogni continente hanno bandito o costretto alla fuga masse innumerevoli di esseri umani.  La Seconda guerra mondiale, nel suo aspetto di guerra ai civili, è stata una fucina di sfollati, deportati, Displaced Persons: un esperimento a cielo aperto di sradicamento, trasferimento coatto, ridefinizione di confini e di appartenenze culturali e linguistiche entro quelle labili entità che sono gli stati e le nazioni. E se nei secoli non si contano gli scrittori esiliati, nel Novecento la lista diventa vertiginosa.

L’esilio, anche quello più dorato, «sa di sale», come ben sapeva Dante. Una «condizione abnorme, malata, quando il proprio paese diventa la terra più profondamente straniera, nemica e inquietante!» disse Thomas Mann nel corso di una conferenza tenuta a Washington nella drammatica estate del 1943, dieci anni dopo aver abbandonato la Germania, dove non avrebbe mai più messo piede. Continua a leggere

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Presentazione del fascicolo “Il paradosso del testimone”

11 aprile 2011, ore 18

Circolo dei Lettori, Palazzo Graneri della Roccia

Via Bogino, 9

Presentazione del n.45, 3/2010 di Rivista di Estetica

dedicato a “Il paradosso del testimone” a cura di Daniela Padoan

intervengono

Enrico Donaggio, ricercatore;
Maurizio Ferraris, filosofo;
Giovanni Leghissa, docente della facoltà di filosofia – Università di Udine;
Daniela Padoan, scrittrice
e Luisa Passerini, docente di Storia Culturale
È possibile inquadrare storicamente la Shoah e mantenere il senso della sua assolutezza? È possibile farne un’estetica nutrita di compiacimenti filosofici e letterari, senza naufragare nell’osceno? Più che provare a definire chi è il testimone, si propone un rovesciamento: chi siamo noi, visti attraverso gli occhi del testimone?

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